Affrontare un tema intimo e delicato come la depressione, con profondità, ma senza il tratto saggistico né un tono tragico, non era affatto semplice. E superbamente vi è riuscita Rebecca Hunt con Il cane nero, in cui le vicende private di un Winston Churchill dimesso e ormai fuori della Grande Storia si incrociano con quelle di una giovane donna alle prese con un recente lutto.
Ma è un racconto surreale quello che stiamo per leggere e Esther Hammerhans riceve il signor Chartwell, questo “cane nero” eretto e umanizzato, quanto bizzarro e invadente inquilino. Quasi alla Cuore di cane di Bulgakov noi lettori non ne siamo sconvolti o scandalizzati, ma sollecitati a proseguire sorridendo nel corso della narrazione.
Questa presenza, infatti, così concreta, tangibile nelle vite dei suoi protagonisti sarà proprio il segno dell’accettazione, primo passo per l’apertura al nuovo, al superamento di ciò che non viene mai chiamato col suo nome, ma sappiamo essere il dolore.
È una storia dolce, priva di grandi eventi, ma di grande coinvolgimento emotivo, come forse la maggior parte delle nostre esistenze.
La prima cosa che notò fu che il signor Chartwell era un colosso. La sua silhouette da materasso riempiva il portico e oscurava il pannello di vetro smerigliato. Mentre lei si avvicinava alla porta, le arrivò uno strano odore che si faceva man mano più intenso. Odore di qualcosa di antico che era stato conservato nell’umidità, come terriccio di una grotta. […]
Il signor Chartwell scolpì un sorriso cordiale sulle labbra nere. “La signora Esther Hammerhans?” Tese una zampa grande come un melone. “Salve, sono venuto per la stanza.”
Buona lettura e buone riflessioni 🙂
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